Questo racconto fa parte di Storie ad un metro …dal palco

di Marco Zondini

Scrivo musica indie pop e saltuariamente racconti. Apro gli occhi per sognare e li chiudo per narrare

Marco Zondini

Nebbia nasce dal mio primo amore letterario: la letteratura gotica e psicologica della seconda meta dell’Ottocento

Marco Zondini

Nebbia

“Guardai nella valle; era sparito
  tutto! Sommerso! Era un gran mare piano,
  grigio. Senz’onde, senza lidi, unito”.
Giovanni Pascoli

Avvenne dunque un giorno, e precisamente quando avevo dieci anni, che io fui chiuso, solo, in una stanza… Nella stanza c’era un grande specchio appeso alla parete, appoggiato con la cornice inferiore sopra il piano di un caminetto; sul piano c’era anche una scacchiera con tutti i pezzi, i bianchi ed i neri, disposti nelle relative caselle… Eccoci dunque in tre come ho detto: io, lo specchio, la scacchiera.

La stanza, una delle tante della villa in cui abitavo, veniva aperta pochissime volte. Vi si accedeva tramite una grossa botola che io non ero mai stato in grado di sollevare. Forse perché non conoscevo l’ambiente che essa nascondeva, quella botola cominciò ad entrare a far parte dei miei sogni: naturalmente ogni sforzo, anche in quelle fantastiche visioni, era vano. La botola non voleva saperne d’aprirsi.

Durante quell’indimenticabile giorno, mentre passeggiavo nell’area dove era situata la botola, fui particolarmente felice nel trovarla aperta e, affatto sorpreso, scesi ad una ad una le scale che essa mi celava. Di quelle enormi scale bianche come il marmo vidi solo l’inizio: non sapevo dove mi avrebbero condotto poiché le tenebre provenienti dalle profondità del cunicolo ostacolavano la mia vista. Terminata la mia discesa verso l’oscuro mi sentii come perso. Fui guidato nella stanza in cui attualmente mi trovo seguendo un curioso ed enigmatico rumore, che tanto mi ricordava lo scoppiare del fuoco nelle fredde notti stellate di San Giuseppe.

Basta.

Senza che me ne fossi accorto mi trovai in quella stanza bloccata da una sorta di “porta-cancello” che si chiuse improvvisamente alle mie spalle. Non urlai, conscio che nessuno, in quel lugubre luogo, mi avrebbe potuto sentire, così mi sedetti sul pavimento con le gambe raccolte fra le braccia, dato che non trovai alcun tipo di mobile. Solo alcuni raggi di luce, provenienti da una piccola inferriata, riuscivano a spezzare quel buio così simile alla nebbia che nei giorni invernali rende la città deserta, nascondendo i volti ed i discorsi delle persone. Davanti a me, appoggiato ai piedi di un camino, v’era un ampio specchio abbracciato da un’antica cornice. Davanti allo specchio c’era una scacchiera con tutti i pezzi già ordinati: i pezzi bianchi erano rivolti verso me; a contrastarli erano quelli neri, dei quali una pedina era già stata mossa.

Volli specchiarmi: impallidii.

La mia immagine non era riflessa nello specchio nonostante in esso fosse rispecchiata tutta la stanza e la scacchiera stessa. Avrei urlato ben volentieri adesso, ma ero talmente terrorizzato che i miei muscoli si irrigidirono diventando immobili e il fiato non riuscì a uscirmi di gola.

Non seppi mai quanto tempo era trascorso da quando persi i sensi, ma fatto sta che quando osservai di nuovo lo specchio notai che nuove pedine avevano cambiato posizione, mentre altre erano addirittura scomparse. Sulla scacchiera reale, o meglio, quella “fuori” dall’universo e dal tempo dello specchio, la situazione non era cambiata: solo quell’unico pezzo era davanti a me, forse a testimoniare il mio atto imprudente. Compresi che non potevo specchiarmi perché questa era la mia vita ed i suoi pezzi il mio destino. Probabilmente vedevo riflesso nello specchio il mio futuro, ma non potevo comprenderlo. Quel gioco mi era sconosciuto. Seguii attentamente sulla scacchiera l’evolversi della partita. I pezzi bianchi stavano pian piano scomparendo e assistevo al trionfo dei neri. Fu uno strano sentimento, misto di odio e di paura, che mi spinse a rompere il vetro dello specchio con la scacchiera. Il camino improvvisamente s’accese e sciolse come poltiglia i cocci del disastro che avevo causato.

Un rumore: mi voltai di scatto.

La “porta-cancello” si era aperta così misteriosamente come si era chiusa. Percorsi a due a due di corsa le scale che mi separavano dalla mia famiglia, dai miei amici, dai miei giochi, dalla mia vita. Inciampai, mi rialzai prontamente e quando giunsi all’uscita di quell’Inferno la sigillai, chiudendo prontamente la botola. Chiusi gli occhi per qualche minuto, mi appoggiai alla parete; il fiato mi si faceva più pesante e mi accorsi che stavo ansimando. Il mio tatto avvertì che la parete su cui mi stavo appoggiando non assomigliava affatto a quella domestica: era più ruvida, come sezionata in parti uguali. Aprii subito gli occhi: una nuova realtà mi circondava.

Da allora io vago per questa città dalla quale non riesco ad uscire, ed ogni discorso è a me sconosciuto, come se la nebbia fosse calata su di me.


Questo racconto è di Maco Zondini che ha gentilmente concesso a Theatre of Tarots di pubblicarlo sui propri canali di comunicazione.

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